Gino Farnetti Bragaglia
STORIA DI GINO
Quel calcio al fondoschiena di Gino fu decisamente inopportuno. Se il soldato avesse appena riflettuto prima di attivare il suo arto inferiore a danno del bambino, questi non avrebbe contestualmente maturato una profonda avversione per lui e per quegli in divisa come lui e l’esercito tedesco non avrebbe visto ingrossare la schiera di coloro che lo avevano in odio. È, presumibilmente, la tarda primavera del 1944. Pare certo, invece, che lo scenario fosse quell’alternarsi di colline e piccole valli che si aprono a sud di Frosinone, verso Torrice, più o meno in prossimità della via Casilina. I riflessi della guerra che ormai da mesi si attarda tra le valli del Rapido, del Garigliano e del Liri, inevitabilmente giungono sin qui. Specie dopo l’attacco alleato alla linea Gustav dell’11 maggio, l’aria che si respira è sempre più inquinata da un diffuso nervosismo. Lo stesso, si presume, che agita l’uomo di Hitler cui il bambino ha portato dell’acqua aspettandosi in cambio almeno un tozzo di pane ma che altro non si merita che un calcio nel sedere. Gino diffida ormai da quell’ambiente dove ha cercato di farsi ben volere in cambio di piccoli servizi e prende allora a vagare senza una meta. Degli uomini in divisa in genere, ormai ha il terrore. Lo stesso che lo pervade al primo impatto con Paul Hagen, il soldato canadese del C Platoon (Divisional Transport Troops, 5th Canadian Armoured Division, RCASC) - un plotone inquadrato nella 5.a Divisione corazzata adibito essenzialmente al trasporto - che, insieme al suo compagno Ike, una notte casualmente lo incontrò. Ce ne volle per tranquillizzare Gino. E ancor più per sapere qualcosa di lui. A destare stupore in Paul era stato, intanto, lo stomaco del bambino “così gonfio da assomigliare ad un birillo da bowling a forma di pera, con le lunghe gambe ed i piedi nudi.” Ma è anche l’“abbigliamento” del bambino a destare curiosità: “Aveva indosso solo un paio di pantaloncini da uomo così sporchi e laceri che facemmo fatica a riconoscerli con sicurezza ma egli disse che gli erano stati dati dagli Inglesi. Pensammo che li avesse avuti dalle nostre truppe avanzate, o di fanteria o di reparti genieri.” “Quella notte”, racconta Paul, “Ike ed io dormimmo con il piccolo italiano, sazio, comodamente sistemato fra di noi. Il povero piccolo era così prossimo allo sfinimento che dormì come un ghiro; solo alcuni latrati e qualche occasionale guaito erano il segno dei suoi sogni travagliati. “Arrivò il mattino ed il piccolo Gino, felice e contento, si mise in fila davanti al camion cucina, tenendo baldanzosamente in mano la mia gamella di scorta. Il nostro vecchio cuoco non si sorprendeva di nulla, ma noi volemmo stuzzicarlo un po’; gli dicemmo allora che McKenzie King (il primo ministro canadese, nda) era a corto di soldati di leva, così mandava qualunque cosa gli capitasse sotto mano.” Quel giorno per Gino fu un giorno diverso, molto diverso da quelli che aveva vissuto sino al giorno prima: i fragori della guerra cominciavano ad affievolirsi e l’essere circondato da tutti quei soldati gli dava una certa sicurezza. Disse che si chiamava Gino Bragaglia - ma i suoi interlocutori capirono e trascrissero tutt’altra cosa - e che aveva sui cinque anni. Il resto della sua storia emerse un po’ alla volta: il papà sarebbe morto qualche tempo prima e da allora aveva perso ogni contatto anche con la madre, parlando della quale gli veniva da piangere. E disse poi che non aveva fratelli, un particolare che, però, verrà smentito anni dopo. Quello stesso giorno, per Paul e per Ike s’impose il dovere di informare della presenza di Gino - intanto ribattezzato Jean - l’ufficiale di plotone. “Il sottotenente Smith era un vero soldato ed un autentico gentiluomo”, scrive Paul. “Come i suoi uomini, anch’egli fu in tutto e per tutto conquistato dal ragazzino e si assunse la responsabilità della situazione. Munito di tutte le informazioni che avevamo raccolto dallo stesso Gino e conoscendo il luogo in cui l’avevamo trovato, il sottotenente Smith prese due uomini che potevano essere sollevati dal servizio frenetico di quei giorni, e partì per il paese natale di Gino. “Red Oliver, di Miniota, fu uno degli uomini che andò di pattuglia col sottotenente Smith.” E proprio lui, “un agricoltore del Manitoba, molto equilibrato e con un innato talento nell’organizzare e gestire cose, tutte le cose, (…) trovò un’anziana signora che da anni abitava accanto alla famiglia Brigalia e lei raccontò ai nostri compagni” che il padre di Gino era morto tempo prima e che la mamma, “alla notizia della morte del marito, aveva avuto un crollo mentale.” Quando la pattuglia di Smith ultimò la sua missione e tornò al campo, “Gino non indossava più gli abbondanti pantaloncini” ma “biancheria ed indumenti dell’esercito, di taglia extra large. Gli avevamo detto”, racconta Paul, “che era il soldato semplice Gino Brigalia e la nostra mascotte. Red si occupò subito del suo vestiario. Qualcuno ci diede un’uniforme, che fu immediatamente portata ad una signora esperta di filo e ditale; quando l’uniforme riapparve era una copia esatta di quella canadese da combattimento e a Gino stava da Dio! Berretto e biancheria arrivarono subito dopo. Prima della fine della settimana, Red e tutti noi avevamo portato indumenti di ogni genere. Non riuscii mai a sapere da dove arrivarono le scarpe, ma credo che qualcuno al quartiere generale le avesse portate da Napoli insieme con gli approvvigionamenti regolamentari. Gino trascorse la seconda notte con Ike e con me”, scrive Paul, “e parlammo per ore delle brutte cose che gli erano successe e delle belle cose che i suoi nuovi amici avrebbero fatto per lui.” Si ha motivo di ritenere che l’incontro tra Paul, Ike e Gino avvenga tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno. Il 30 maggio, peraltro, proprio al bivio per Torrice sulla via Casilina c’è un violento scontro tra tedeschi e canadesi i quali sono presenti in zona con gli uomini della 78.a Infantry divisione e del Loyal Edmonton Regiment. Tempo dopo, quando la linea del fronte si sposta più avanti, racconta sempre Paul Hagen, Gino venne affidato alle cure di Red Oliver e Mert Massey, il meccanico del plotone, il quale, avendo più tempo a disposizione dei semplici autisti, “divenne il mentore e tutore di Gino durante il giorno.” “Gino imparava molto velocemente. L’inglese divenne una lingua quasi spontanea per lui e (…) appena imparò bene la routine del campo e le mansioni, i gradi da caporal maggiore apparvero sulla sua minuscola uniforme. Egli conosceva tutti per nome e di tutti conosceva il grado e la mansione nel plotone. Fotografie del piccolo caporal maggiore Gino furono pubblicate sui giornali dell’esercito ed anche su qualche giornale a casa, in Canada. Una qualunque persona, con una minore personalità, sarebbe diventata estremamente viziata, ma Gino restò il ragazzino rispettoso che noi tutti amavamo. Red e Mert gli insegnarono a dire le preghiere la sera e a mantenere abitudini igieniche regolari. Da non so dove si materializzò una bicicletta e Gino diventò il portaordini degli accampamenti. Qualcun altro scroccò una macchinina a pedali abbastanza grande (Gino ricorda che era addirittura targata con la numerazione progressiva utilizzata per gli automezzi militari in dotazione, nda) ed egli diventò autista effettivo, come tutti noi. Oltre ai molti civili italiani, tutti incuriositi da questo bimbo soldato che parlava inglese, militari delle forze britanniche, americane, altre unità canadesi, alcuni polacchi ed anche uno dei Ghurka che combattevano al nostro fianco, tutti passarono a vedere il piccolo caporal maggiore.” Intanto la guerra si sposta verso nord e così pure il reparto di cui Jean, Gino, è la simpatica mascotte. L’ambiente in cui egli è costretto a vivere poco si adatta, però, ad un bambino della sua età cosicché, seppure a malincuore, si decide di affidarlo alle cure ed alle attenzioni degli uomini dell’Oss (Office of Strategic Services), un servizio specialissimo e assai delicato che disponeva di ampi mezzi e che, per quanto fosse talvolta impegnato in azioni molto rischiose, di solito godeva di ampia libertà. Jean non ha difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione, trovando anche qui affetto e simpatia da parte di tutti. Quando il reparto giunge nei pressi di Ravenna, va ad installarsi in una villa di Coccolia solitamente frequentata da un giovane del luogo, Antonio Farneti, il quale, con un nucleo di volontari italiani, aveva compiuto missioni per conto dell’Oss nei territori ancora occupati dai tedeschi. Jean familiarizza subito con Antonio e, soprattutto, con la sua fidanzata, Rina Zaccaria, che prende in simpatia il bambino venendone ricambiata: del resto, è la prima donna che Jean incontra sulla sua strada da diversi mesi a quella parte. Un po’ per volta Jean finisce con l’entrare del tutto nella vita di Rina, nella cui casa ormai dorme e mangia, cosicché il giorno in cui il reparto deve per forza di cose spostarsi ancora più a nord, verso Verona, lui ci rimane molto male nel doverla lasciare. Intanto la guerra finisce e per il reparto dell’Oss che ha “adottato” Jean arriva l’ordine di spostarsi in Estremo Oriente, in Giappone. Che fare del bambino? A chi affidarlo? Inevitabilmente si pensa a Rina Zaccaria, la quale, naturalmente, non se lo lascia ripetere due volte. E’ il 10 maggio 1945. Antonio e Rina, che nel frattempo si sono sposati e trasferiti a Ravenna, prendono ad aver cura di Jean - intanto “ribattezzato” Gino - come se fosse un figlio loro. Ed è per loro una gran gioia vedere il bambino crescere a vista d’occhio, vivace ed intelligente. Ma c’è un neo: Gino per la burocrazia non esiste. Scrive Tino Dalla Valle: “Aveva fame, e allora c’era ancora il razionamento alimentare, ma per Gino - solamente Gino, così senza un cognome - non si poteva avere una tessera. Poi, ormai cresciuto, bisognò mandarlo alle scuole e queste lo accolsero ma senza iscriverlo poiché Gino non figurava da alcuna parte. “Egli non seppe niente di tutto questo fino a quando, alla fine dell’anno, andato per vedere i propri voti si accorse con stupore che il suo nome non figurava fra quelli dei compagni. La scuola lo aveva accolto col nome di Gino Farneti, gli aveva dato le pagelle per i trimestri tollerando qualche piccolo trucco, ma non poteva segnarlo sui propri registri ufficiali poiché Gino, ufficialmente, non era mai nato!” Quel giorno Gino andò a casa piangente e ci volle tutta la pazienza di “mamma” Rina per consolarlo. Pazienza, tanta, tante innocenti bugie e piccoli stratagemmi furono le armi cui Antonio e Rina fecero ricorso perché Gino non si sentisse diverso dagli altri. Ma i giovani sposi si interessarono anche a cercare di rintracciare se non i genitori almeno qualche parente del bambino, facendo perciò pubblicare una sua foto sui giornali ed interessando un po’ tutte le questure del centro sud. Però senza alcun risultato anche se, dice Antonio Farneti, più di qualcuno andò a vedere il bambino cercando di rintracciare, ma inutilmente, qualche segno particolare sul suo corpo che potesse consentire di identificare in Gino il proprio figlio, anche lui disperso per via della guerra. La pratica per l’adozione intanto ristagnava non essendovi una legge cui potersi riferire per l’originale e particolare circostanza e dare così a Gino uno stato civile. Tutto ciò fino a quando il Procuratore della repubblica di Ravenna non trovò un caso analogo riferito ad un bersagliere che dopo la prima guerra mondiale aveva adottato un fanciullo disperso. Su questa base, il tribunale di Ravenna diede a Gino il cognome di Antonio, che fu designato come tutore, ma con la “t” raddoppiata: Farnetti. Ed al comune venne anche redatto l’atto di nascita ma con l’indicazione del solo anno, il 1939. Quanto al giorno ed al mese, i coniugi Farneti presero a festeggiarne il compleanno il 10 maggio, ovvero il giorno in cui il reparto dell’Oss lo aveva affidato a loro, e così hanno continuato a fare per gli anni a venire, man mano che Gino cresceva ed incominciava ad aiutare “papà” Antonio nel suo negozio di pezzi di ricambio per auto e dopo ancora. Della storia di Gino, nei suoi luoghi di origine se ne venne a sapere già sul finire del 1945 attraverso Il Rapido, settimanale di Cassino: “Un bambino biondo con occhi neri è stato raccolto alla periferia di Cassino dalle truppe canadesi. Egli non ha mai saputo dire con precisione il suo nome e non ricorda con esattezza il luogo dove abitava. I canadesi, che lo chiamavano Gino Brighegli, lo portarono con loro e lo lasciarono a Coccolia (Ravenna) il 10 maggio 1945. Da quel giorno è stato raccolto dalla famiglia di Antonio Farneti, Via Ravegnana 64, Coccolia. Ha circa sei anni di età, è robusto, fiorente, biondo con occhi neri.” Un paio di mesi dopo, il giornale pubblica una foto del bambino ed altre notizie sulle vicende capitategli: “Il bambino ha oggi circa sei anni, è biondo, robusto. Fu raccolto a Cassino da truppe canadesi all’epoca della battaglia (primavera 1944) e dai canadesi fu poi consegnato a soldati americani che lo tennero per circa un anno fin quando, cioè, dovettero rimpatriare. Il 5 maggio del 1945 il bambino fu affidato ad Antonio Farneti che se ne prese cura, mandandolo anche a scuola. “A seguito della pubblicazione nel n. 3 del ‘Rapido’ si presentò al Farneti tal Lanciano Filippo da Cassino il quale avrebbe riconosciuto nel bambino un suo nipote! Il padre del bambino sarebbe morto tragicamente durante le operazioni belliche ma la madre sarebbe vivente e si troverebbe ora sfollata in Sicilia. (…) Il Lanciano Filippo ha dichiarato di essere reduce dalla prigionia e di trovarsi ora sfollato a Torrice (Frosinone)” Sulla base di queste informazioni fornite da Il Rapido, accingendomi a pubblicare il mio libro Mal’aria (1998), pensai di contattare il signor Antonio Farneti per sapere qualcosa di più sul “bambino biondo con occhi neri”. Le mie attese non andarono deluse cosicché, grazie proprio alla cortesia ed alla disponibilità del signor Farneti, sulla base delle informazioni fornitemi, cioè quelle che a quel tempo si conoscevano, fui nella condizione di poter ricostruire le vicende capitate a Gino con il corredo di una serie di foto. Sulla base dell’evolversi degli eventi bellici nella primavera avanzata del 1944, ipotizzai allora che il bambino poteva essere stato individuato mentre vagava, smarrito ed in lacrime, in un “villaggio bombardato nella zona di Pontecorvo”, località nelle cui vicinanze era stato molto intenso lo scontro tra i tedeschi e le truppe canadesi peraltro dirottate sul fronte di Cassino da una ventina di giorni appena, cioè verso la fine di aprile. Che, invece, le cose erano andate in tutt’altro modo son venuto a saperlo solo una quindicina di anni dopo, ovvero verso la metà di luglio di quest’anno di grazia 2012 quando, per il tramite del direttore della biblioteca comunale di Frosinone Angelo D’Agostini, vengo contattato dalla professoressa Mariangela Rondinelli di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, la quale mi dice di avere importanti novità sulla storia di Gino e chiede la mia collaborazione insieme a quella di altri amici (Paolo Sbarbada, Maurizio Federico, Gianni Blasi) per alcune verifiche in loco. Lei, che ha letto il mio I giorni della Hitler (2009), libro nel quale ho riproposto la storia di Gino già pubblicata in Mal’aria, mi dice, in sostanza, che i canadesi il bambino lo avrebbero trovato non già in un villaggio presso Pontecorvo, o Cassino che dir si voglia, bensì presso Frosinone. Il cognome, poi, non sarebbe Brighegli bensì Bragalia. Da Bragalia a Bragaglia il passo è breve; di conseguenza, è anche più facilmente individuabile l’area dove questo cognome è diffuso: Frosinone e zone circostanti. Chissà perché, forse per un riflesso mutuato dalla notizia di quel Lanciano Filippo di Cassino ma sfollato a Torrice che era andato a Ravenna per vedere se il bambino di cui parlavano i giornali fosse un suo parente, chissà perché ma Torrice, con Pofi ed Arnara, è da subito tra i paesi ipotizzati come patria di Gino. La conferma la ebbe Paolo Sbarbada quando andò a verificare gli atti di battesimo della parrocchia di San Pietro Apostolo di Torrice presso l’archivio della diocesi di Frosinone, Veroli e Ferentino dove appunto trovò che “Ginus” Bragaglia, nato il 26 aprile 1938, era stato battezzato in quella chiesa il primo maggio successivo dal parroco Egidio Vincenzi, padrini Francesco Lisi di Domenico e Angela Magliocco fu Sebastiano. E ne ebbe ulteriore conferma, insieme a Maurizio Federico, nella ricerca presso l’anagrafe del comune di Torrice dove, grazie alla collaborazione della responsabile dell’ufficio Katia Savo, risultò che Gino, figlio di Giuseppe e Filomena Fiacco, vi era stato registrato con il nome di Luigi “avanti a me Manni Giacinto podestà” sempre quel primo maggio del 1938. Ma risultava anche, per la cronaca, che era stato cancellato dagli stessi registri il 6 dicembre 1952 per “irreperibilità”. Sta di fatto che il positivo esito della ricerca lo si poteva comunicare, con quale comprensibile emozione è facile intuire, alla professoressa Rondinelli proprio nell’immediata vigilia della sua partenza per Frosinone insieme a Gino per una visita già programmata a prescindere dall’esito della ricerca e che deve essere quindi adeguata agli importanti sviluppi intervenuti. E nel pomeriggio di venerdì 19 ottobre Gino può finalmente conoscere i suoi parenti in località Cervona, proprio nel luogo dove era la casa dove lui aveva vissuto i suoi primi anni di vita. Quella casa non c’è più. Al suo posto, nello stesso luogo, vi è ora una moderna costruzione dove vive suo nipote Francesco, figlio di Domenico, quel fratello maggiore di cui Gino ignorava l’esistenza e che purtroppo non ha potuto conoscere essendo morto. Ci sono, però, i suoi figli: Francesco, appunto, e, poi, Sebastiana e Filomena che abitano a Veroli e che non sono mancate all’appuntamento con lo zio. Cosa che, invece, non hanno potuto fare Giuseppina e Lorenzo, gli altri loro fratelli, perché emigrati in Canada così come Vincenzo morto anche lui. Il giorno dopo, sabato, Gino si reca al cimitero di Torrice per rendere omaggio alla tomba dei suoi cari; poi, nel pomeriggio, un giro nei dintorni fino al fiume Melfa e poi in un posto, sulla Caragno, dove, secondo Gianni Blasi, potrebbe essere stata scattata quella foto con Mert e Red in costumi adamitici ai margini di un campo di granone sullo sfondo di un dolce ondulare di colline. Per Gino, la curiosità per quel mondo che rivede dopo anni è grande. Ed anche la commozione. Ma l’unico ricordo di allora che riesce a rivivere con gli occhi di oggi è probabilmente legato al tempo della fame: il campo di fave al di sopra della collina che degrada verso casa.
Costantino Jadecola
___Cerimonia di conferimento della Cittadianza Onoraria di Torrice: